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Laura Arminda Kingsley


Laura Arminda Kingsley, artista e mediatrice culturale, nel suo studio © Laura Arminda Kingsley


Laura Arminda Kingsley è un’artista e una mediatrice culturale. Per la mostra «Stranger in the Village» presso l’Aargauer Kunsthaus, ha fatto parte dell’Advisory Board ed è stata responsabile della mediazione culturale e coinvolta come artista. Nel suo atelier ho ragionato con Laura su come mediare una mostra sul razzismo, sull’importanza dello scambio e su come sia riuscita ad assumere i suoi diversi ruoli.

 

Cara Laura, grazie per aver trovato il tempo per questa conversazione. Sei appena tornata dalla Kamene Artist Residency a Nairobi. Com'è stata?

È stato sorprendente vedere come Nairobi sia simile a Santo Domingo, dove sono cresciuta. È affascinante visitare luoghi che sono stati plasmati dal colonialismo e scoprire che hanno molto in comune, anche se si trovano in un altro continente. In quanto persona afrodiasporica, è interessante viaggiare in Africa. Si riconosce molto, ed è una bella esperienza. Per me è stato anche importante avere uno scambio sulla mia opera in un contesto culturale diverso. Non volevo che il mio lavoro fosse discusso e condiviso solo nell'emisfero settentrionale.

 

Com’è stato per te confrontarti sulla tua opera nel continente africano?

È stata un’esperienza arricchente e bella. Mi sono sentita accolta e ho potuto scambiare idee con molte persone, non solo sulla mia opera, ma anche su di me, con tassisti, venditori al Toi Market, che erano molto interessati a un confronto con la prima persona caraibica che avessero mai incontrato. (riflette) Ricordo quando sono arrivata in Svizzera, mi sono trovata improvvisamente catapultata in uno spazio culturale con cui non ho molta storia in comune. Quando parlo qui della tratta transatlantica degli schiavi o degli orisha, è necessaria una certa contestualizzazione. Ho dovuto imparare a mettere in evidenza temi universali nel mio lavoro. Al contrario, a Nairobi c'era una sorta di linguaggio comune, esperienze condivise.

 

Per tutte le lettrici e i lettori che non ti conoscono ancora, come ti descriveresti?

Direi che sono un’artista e una mediatrice culturale. C'è molta sovrapposizione tra la mia pratica artistica e quella di mediazione, ma nel profondo sono un’artista. Faccio arte partendo dalla prospettiva che nessuna, nessuno mi deve la sua attenzione. Come mediatrice, rifletto su come chi osserva l’opera interagirà con il mio lavoro. Quando sono arrivata in Svizzera, mi sono chiesta: cosa posso offrire a una persona che ha un background culturale completamente diverso dal mio? Per me è molto importante che il mio lavoro interagisca con chi lo osserva, che la mia opera ricompensi l’attenzione che le viene dedicata.

 

Faccio arte partendo dalla prospettiva che nessuna, nessuno mi deve la sua attenzione. Come mediatrice, rifletto su come chi osserva l’opera interagirà con il mio lavoro. Quando sono arrivata in Svizzera, mi sono chiesta: cosa posso offrire a una persona che ha un background culturale completamente diverso dal mio? Per me è molto importante che il mio lavoro interagisca con chi lo osserva, che la mia opera ricompensi l’attenzione che le viene dedicata.

Non è purtroppo scontato che le artiste e gli artisti pensino al pubblico quando creano un’opera. Come sei arrivata a questa posizione?

Per me l’arte è un modo di comunicare che, si potrebbe sostenere, o meglio, come ha sostenuto John Berger, è molto più forte della lingua parlata. Mi viene sempre chiesto qual è la mia lingua madre e rispondo sempre: disegnare. È la lingua che conosco meglio, ancora oggi. Quando si parla, ci si chiede come ciò che viene detto sia recepito dall’interlocutrice o dall’interlocutore. Per me è importante che la mia arte non sia un monologo nel vuoto. Voglio che la mia arte determini un cambiamento positivo per quante più persone possibile. Per questo faccio arte pubblica. Potrei svolgere altre carriere, ma sapere che posso condividere le mie esperienze e riflessioni con altre persone attraverso l’arte mi motiva.


Hai spiegato in modo molto chiaro come la mediazione artistica influenzi la tua attività artistica. L’artista che è in te influenza anche la tua attività di mediatrice culturale?

Sì, molto. Essendo anche un’artista, per me è sempre stato più facile, come mediatrice, mettermi nei panni di chi crea l’opera. Essere un’artista è impegnativo ed esigente da diversi punti di vista. Ed è purtroppo una professione che viene spesso stigmatizzata e romanticizzata. Ma la realtà della professione è raramente rappresentata in pubblico in modo realistico. Come mediatrice ho sempre cercato di trasmettere questa realtà, perché offre una prospettiva diversa su un’opera e anche un diverso rispetto per essa.

 

Come si contrasta la romanticizzazione delle persone artistiche attraverso la mediazione?

Ad esempio, ho condotto workshop in cui abbiamo realizzato un progetto artistico che tutte e tutti potevano fare. Questo contrasta la mistificazione delle artiste e degli artisti, dimostrando che non si tratta di qualcosa che solo certe persone possono fare, ma che chiunque può farlo. Allo stesso tempo, si comprende quanto esercizio e quanta disciplina richieda lo svolgimento di un'attività artistica.

 

Ci sono temi attuali nel campo della mediazione artistica che ti interessano? Oppure temi che, a tuo avviso, meriterebbero maggiore attenzione?

Sarebbe auspicabile che i musei, attraverso la mediazione ma non solo, affrontassero i loro problemi strutturali. Ad esempio, come possiamo rivolgerci a un pubblico più giovane, a un pubblico con un background migratorio...

Nel progetto Stranger in the Village, ci siamo rivolti allo sportello di consulenza «Integration Aargau» per vedere come potevamo collaborare. Abbiamo chiesto loro cosa si aspettassero da noi. Non ho creato un programma e poi chiesto ad altre persone di attuarlo. Ho cercato uno scambio con figure chiave di diverse organizzazioni e le ho invitate a una visita gratuita, offrendo loro tanto o poco della mia mediazione, a seconda di ciò che ritenevano adatto al loro gruppo. E ha funzionato molto bene. Mi piacerebbe che accadesse più spesso. Anche i gruppi con cui abbiamo collaborato hanno espresso il desiderio di essere invitati non solo quando c'è una mostra su razzismo ed esclusione. È importante riconoscere che per alcuni gruppi di persone è necessaria una sorta di invito per entrare in un museo. Abbiamo anche offerto l'ingresso gratuito, perché non tutte e tutti possono permettersi l'ingresso in un museo svizzero.

 

È importante riconoscere che per alcuni gruppi di persone è necessaria una sorta di invito per entrare in un museo.

Quindi vorresti che la mediazione culturale non fosse un monologo, ma un dialogo. Che non si dica al pubblico cosa fare e cosa apprezzare con il pretesto di colmare lacune demografiche, ma che si cerchi di capire dal pubblico stesso di cosa ha bisogno. Esattamente, penso che come mediatrice o mediatore si debba essere flessibili e capaci di rispondere alle informazioni che si ricevono dal pubblico. Se un gruppo è annoiato, bisogna (schiocca le dita) cambiare immediatamente, non si può continuare così. Credo ci vogliano risorse e la volontà, da parte delle istituzioni, di sostenere questo dialogo.

 

Nella mostra Stranger in the Village, all’Aargauer Kunsthaus, ispirata al testo omonimo di James Baldwin, hai ricoperto diversi ruoli: artista con le tue opere, mediatrice e membro dell’Advisory Board. Questi diversi ruoli hanno facilitato o complicato il tuo lavoro? 

Come artista, ho presentato un'opera, una scultura in ceramica che ho realizzato nel 2020. Non ho creato un’opera specifica per la mostra, ma ho mostrato un’opera esistente. Come mediatrice, è stato vantaggioso indossare tanti cappelli diversi, ma è stato anche molto impegnativo in termini di tempo. Per diversi mesi ho lavorato molto, perché dovevo anche portare avanti i miei progetti artistici. È stato utile essere molto coinvolti. È un vantaggio nella mediazione disporre di molte informazioni, perché è più facile concepire diverse offerte di mediazione.


La mostra è stata curata da un team composto in gran parte da persone senza esperienza diretta di razzismo. Per questo è stato istituito un Advisory Board che ha affiancato la mostra con funzione consultiva. Come si è articolata la collaborazione tra comitato consultivo e team curatoriale?

Esistono diversi modelli di collaborazione e ovviamente ci sono istituzioni internazionali che hanno già fatto cose simili. Per l’Aargauer Kunsthaus è stata la prima esperienza con una mostra del genere e con un comitato consultivo. Avevamo un tempo limitato e dovevamo assicurarci di non discutere solo di molte questioni teoriche complesse, ma anche di presentare una mostra ponderata. Credo che ci siamo riusciti. È stato importante per la mostra e un arricchimento avere al nostro fianco un Advisory Board, perché sono temi che non dovrebbero essere affrontati da una sola prospettiva. Il comitato consultivo ha dato voce a molteplici prospettive, anche se ha svolto solo un ruolo consultivo. Le decisioni non venivano prese collettivamente, ma spettavano alle curatrici e ai curatori. È naturale che su un tema così complesso persone con esperienze e formazioni diverse non arrivino facilmente a un accordo. Ma abbiamo comunicato apertamente questo al pubblico.

 

Quali sono i vantaggi di questo approccio consultivo, secondo te? E quali difficoltà possono sorgere?

Sarebbe stato difficile prendere decisioni collettive, perché ci sarebbe voluto molto più tempo e risorse. Questo è stato uno degli insegnamenti che molte istituzioni, che avevano già realizzato progetti simili, ci hanno restituito come feedback. Un vantaggio del comitato consultivo è sicuramente che quattro occhi vedono più di due. E se si moltiplicano, si ottiene un grande supporto. Il comitato consultivo è stato utile per determinare il linguaggio utilizzato nella mostra, un aspetto cruciale per un tema del genere, o per dettagli quali come rendersi disponibili al pubblico. In Stranger in the Village il pubblico poteva contattare il museo tramite e-mail sotto il riferimento «Consapevolezza». Questo ha permesso al pubblico di entrare in dialogo con il museo laddove lo riteneva necessario.

 

Hai consultato l’Advisory Board anche per la concezione del programma di mediazione?

Sì, ho potuto presentare il mio concetto di mediazione all’Advisory Board due volte e raccogliere riscontri. Questo è stato particolarmente utile all'inizio. Io provengo infatti da un contesto culturale diverso, in cui si è affrontato il tema del razzismo su una linea temporale diversa. Riconoscere il problema del razzismo è qualcosa che negli Stati Uniti e nei Caraibi è avvenuto qualche generazione fa. Ora, questo tema viene affrontato qui, in un contesto storico completamente diverso. Per me era sempre importante ascoltare come il comitato consultivo e le curatrici e i curatori trattavano questo argomento, per capire dove nel discorso si situavano le persone interessate alla tematica. In Svizzera, l’intersezionalità è attualmente un tema molto discusso. Nel contesto americano o caraibico, questo è accaduto da ormai una generazione: l’autrice bell hooks ne ha scritto molto tempo fa. Per questo motivo era importante per me capire quali temi fossero attualmente discussi qui.

 

Quali erano i vostri obiettivi e le strategie nello sviluppo del programma di mediazione della mostra?

Il mio obiettivo per il programma di mediazione era dare al pubblico il tempo e lo spazio per affrontare il tema. Ovviamente, il razzismo è un tema che non si digerisce durante una visita al museo di due ore. Volevamo offrire alle persone la possibilità di confrontarsi con il tema al proprio ritmo.

Era molto importante per me che lo spazio partecipativo fosse al centro della mostra. All’arrivo in quel punto, si era già vista metà della mostra ed era stata affrontata una varietà di storie sul colonialismo e il razzismo, come ad esempio le esperienze di Baldwin a Leukerbad o opere più recenti sul razzismo quotidiano in Svizzera, come il lavoro di Sirah Nying White Eyes, Black Skin (2022). Il mio obiettivo era dare alle visitatrici e ai visitatori l’opportunità di considerare la propria posizione, in modo intuitivo, che desse spazio alla riflessione.

Nello spazio di mediazione si poteva sedersi e disegnare il proprio ritratto riflesso nello specchio. Volevo che fosse uno spazio di riflessione, e ho pensato fosse importante tornare a guardare se stesse, se stessi, dopo tante informazioni su come le persone, a seconda del loro aspetto, devono navigare nella nostra società.


Luminoso e moderno spazio museale con ampie finestre. Le finestre sono completamente ricoperte da fogli colorati su cui sono raffigurati volti astratti. I visitatori sono seduti a tavoli e stanno disegnando i loro autoritratti sui fogli. L'immagine trasmette un'atmosfera di creatività e interazione.

© Ullmann Photography


Accanto ai ritratti, c’era anche una parete viola su cui si potevano scrivere i propri pensieri riguardo alla domanda su come vogliamo convivere. L'idea era che la mostra non fosse solo un monologo con un'enorme quantità di informazioni, ma che le visitatrici e i visitatori avessero anche l'opportunità di riflettere e di comunicare le loro opinioni. È stato bello vedere come le persone abbiano condiviso le loro riflessioni in molte lingue diverse.

Dopo aver visto metà della mostra, non mi chiedevo più se esistesse il razzismo in Svizzera – non devo rispondere a questa domanda, poiché la mostra lo dimostrava chiaramente. La domanda successiva era: e quindi, cosa facciamo? Come viviamo insieme? Per me era importante che il maggior numero possibile di persone potesse partecipare a questo discorso. Mi sono anche assicurata che la parete fosse accessibile, grazie alla grandezza e leggibilità delle lettere. E, naturalmente, ho pensato anche a sedute comode. Perché questo è la mia grande bestia nera museale: spesso non si riflette su come i corpi umani attraversano questi edifici in duro cemento e come ci si sente a starci dentro.


Un'ampia parete viola in un museo, ricoperta da messaggi e disegni colorati. Le parole "Love", "One Love" e "Insieme" sono evidenziate. Due sedute gialle invitano a fermarsi e contemplare. L'immagine trasmette un senso di vitalità e accoglienza.

© Ullmann Photography


Il mio obiettivo per il programma di mediazione era dare al pubblico il tempo e lo spazio per affrontare il tema. Ovviamente, il razzismo è un tema che non si digerisce durante una visita al museo di due ore. Volevamo offrire alle persone la possibilità di confrontarsi con il tema al proprio ritmo.

Oltre allo spazio di mediazione nella mostra, c'era anche una sala di lettura nel foyer. Puoi raccontare di più al riguardo?

Si tratta della «Sala di lettura antirazzista» nel seminterrato, vicino al guardaroba. Da un lato, volevo rispondere alle esigenze della comunità e creare spazi in cui le persone potessero stare senza dover consumare. Perché, scusate, un tè in Svizzera costa 5 franchi, e devono esserci luoghi, anche al coperto, dove ci si può soffermare senza spendere soldi. Era importante per me che fosse una sala di lettura e non una biblioteca. Ciò significa che si poteva venire anche con un bambino piccolo, e se il bambino piangeva, nessun problema. Nella sala di lettura c'era una sorta di angolino del benessere sotto le scale, con un tappeto rotondo e libri appesi al soffitto. Ho fatto molte ricerche su libri illustrati per bambini che affrontano il tema della diversità e dell'uguaglianza. C'erano anche molti libri per adolescenti e adulti. L'idea era di offrire la possibilità di approfondire un tema senza dover consumare o pagare l'ingresso.

 

Avete anche affrontato il problema dell'inaccessibilità del museo a causa dei prezzi dei biglietti?

Sì, assolutamente. Abbiamo espresso il desiderio di una soluzione a questo problema e la responsabile della mediazione culturale Silja Burch assieme alla curatrice Céline Eidenbenz hanno organizzato l'ingresso gratuito il giovedì dalle 17:00 alle 20:00. Per me è assolutamente normale: a New York City tutti i musei hanno un giorno in cui, dopo una certa ora o per l'intera giornata, non si paga il biglietto. E da studentessa, ovviamente, conoscevo tutti gli orari a memoria (ride). Quando sono arrivata in Svizzera, è stato quasi scioccante vedere che qui non esisteva. Ci sono offerte come la "KulturLegi", ma devi avere i requisiti per ottenerla.

 

E bisogna conoscere l'offerta, disporre delle risorse per informarsi, iscriversi ecc.

 

Dal nostro colloquio preliminare so che avete coinvolto anche i volontari del Kunsthaus Aargau nella mediazione della mostra. Puoi spiegarmi come avete concretizzato questa collaborazione?

Le volontarie e i volontari si sono autoformati durante i mesi di preparazione della mostra, leggendo libri e redigendone riassunti che abbiamo messo a disposizione delle educatrici e degli educatori Spesso chi lavora nella mediazione culturale non ha un contratto a tempo indeterminato e nemmeno orari d’ufficio. Per me era importante evitare di pretendere dalle mediatrici e dai mediatori freelance di leggere interi libri nel loro tempo libero. I riassunti delle volontarie e dei volontari sono stati molto utili per loro. Questo ha anche portato a una preparazione eccellente delle volontarie e dei volontari a disposizione del pubblico in due luoghi. Da un lato, come persone con cui scambiare opinioni all'interno della mostra. Ho realizzato per loro dei badge con la scritta "parliamone". In questo modo, volevo offrire alle visitatrici e ai visitatori la possibilità di uno scambio diretto sul posto. Sentivo che, con un tema del genere, ci sarebbe stato un grande bisogno di confronto. Ha funzionato bene e abbiamo ricevuto molti riscontri dalle volontarie e dai volontari. Questo ci ha aiutato a capire come il pubblico percepiva la mostra. Inoltre, le volontarie i volontari erano presenti anche nello spazio di mediazione, motivando le persone a partecipare e spiegando come funzionava tutto. L'obiettivo era creare uno scambio informale.

 

In retrospettiva, puoi dire quali formati hanno funzionato bene?

L'esempio del coinvolgimento delle volontarie e dei volontari nella mediazione della mostra ha funzionato molto bene e, per quanto ne so, continuerà anche in futuro. Lo rifarei senz’altro. È stato utile che le volontarie e i volontari mi conoscessero già, poiché ciò ha determinato un clima di fiducia. Sapevano che non ero lì per giudicare e che potevano parlare apertamente. Si sono creati molti scambi importanti. È anche significativo che loro rappresentassero una fascia di popolazione non presente tra il personale, essendo sopra l'età pensionabile. È prezioso includere questa prospettiva.

 

Quali formati sono stati difficili da realizzare o ripenseresti oggi?

Hmm…forse la parete viola nello spazio educativo. All'inizio c'era molto spazio e le persone riflettevano attentamente. A un certo punto ho cominciato a vedere codici postali (ride) e squadre di calcio, e chiaramente non era questa l'idea. A volte ho dovuto fare un po' di pulizia, e dopo il 7 ottobre sono apparse sempre più bandiere palestinesi e poi altre bandiere di vari Paesi. Capisco il bisogno di esprimere solidarietà in tempi di guerra. Ma non era quello il tema della stanza. E il nazionalismo è, a mio avviso, uno di quei concetti costruiti che ci separano e ci impediscono di riconoscere l'umanità reciproca. Se lo rifarei oggi? Difficile dirlo. Da un lato è stato bello vedere questa sovrapposizione di idee e reazioni ben ponderate, ma c'era anche propaganda e bandiere. Credo che, se lo rifacessi, pianificherei di ridipingere la parete ogni mese, in modo che ci siano tre nuovi inizi durante la mostra.


La mediazione culturale ha contribuito anche alla concezione della mostra?

Sono stata coinvolta in alcune questioni curatoriali, ma non molto, soprattutto per mancanza di tempo. Avevo inizialmente un impiego al 40% e poi al 50%, e non è abbastanza tempo per prendere decisioni curatoriali.

 

Saresti stata volentieri più coinvolta?

Per me non sarebbe stato ideale a causa della mia situazione personale. Poiché sono anche artista autonoma, avevo altri progetti su cui stavo lavorando in quel periodo. Non sarebbe stato possibile per me essere più coinvolta. Penso sia importante che la curatela collabori con il team di mediazione culturale fin dall'inizio, e che la mediazione non sia un ripensamento. Ma credo anche che il lavoro curatoriale sia diverso dal mediare, e dovrebbe esserlo.

 

Come avete affrontato la questione di parlare di razzismo nella mediazione, in particolare con classi e gruppi in cui c’erano persone con vissuti di razzismo?

Abbiamo riflettuto molto su questo e ci siamo preparate. Per me, come persona BIPoC in Svizzera, essere confrontata con il razzismo e parlarne non è un’opzione. Spesso non è qualcosa che posso evitare o scegliere di affrontare. Questo non è il caso per la maggior parte del nostro team. Quindi abbiamo cercato libri e abbiamo organizzato workshop sulla diversità per tutto il team. In questo modo, il team era sensibilizzato. Abbiamo anche stilato una lista e definito delle procedure per situazioni specifiche. Ad esempio, su come comportarsi se un bambino in una classe si isola perché colpito dal tema. Personalmente, ho avuto l’impressione che il grado d’informazione delle e degli adolescenti era molto buono e che anche le allieve e gli allievi delle inferiori erano stati familiarizzati con il tema. Buona parte delle e degli insegnanti hanno dimostrato interesse per il tema e hanno preparato benissimo le classi alla visita della mostra.

Abbiamo anche cercato di preparare il personale di sorveglianza alla mostra nel miglior modo possibile,  comunicando chiaramente le nostre aspettative, ad esempio che nonv’era nessun obbligo a parlare costantemente del tema, ma che c’era la possibilità di indirizzare le persone interessate all'indirizzo email dedicato. Abbiamo anche elaborato un protocollo su come agire se qualcuno avesse avuto una reazione forte alla mostra. Devo dire che ci sono state solo poche situazioni in cui una persona ha reagito veementemente, per esempio urlando contro una persona di sorveglianza o trattando  in modo irrispettoso una mediatrice o un mediatore, e si trattava sempre di adulti, mai di minori o classi scolastiche.


Per me, come persona BIPoC in Svizzera, essere confrontata con il razzismo e parlarne non è un’opzione. Spesso non è qualcosa che posso evitare o scegliere di affrontare. Questo non è il caso per la maggior parte del nostro team. Quindi abbiamo cercato libri e abbiamo organizzato workshop sulla diversità per tutto il team. In questo modo, il team era sensibilizzato.

 

Ho l’impressione che foste ben consapevoli del fatto che dialogo, preparazione e formazione sarebbero stati fondamentali per affrontare le situazioni difficili in questa mostra.

Esattamente, ma naturalmente non si può prevedere tutto. Tuttavia, è andata molto bene. Abbiamo ricevuto molte più richieste di workshop di quante ne potessimo gestire. C'è un grande bisogno nel Paese di parlare di questo tema. Per me è stato molto impegnativo in termini di tempo, e non lo avrei fatto se non fossi stata consapevole che era una mostra di cui la Svizzera aveva bisogno.


 

Intervista: Lisa Gianotti

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